I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata.
- Con sentenza pronunciata in data 31 maggio 2018 la Corte di appello di Caltanissetta respingeva perchè infondata la richiesta, proposta nell’interesse di ddddd., di revisione della sentenza emessa dalla Corte di Assise di appello di Palermo il 15 febbraio 1999, irrevocabile il 13 giugno 2000, che lo aveva condannato alla pena di anni quattro di reclusione, in quanto ritenuto responsabile del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p. in riferimento all’apporto dallo stesso dddddddddd
1.1 A fondamento della decisione la Corte di appello rilevava che, pur essendo la richiesta ammissibile per essere la revisione c.d. Europea, proposta ai sensi dell’art. 630 c.p.p. nel testo modificato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, lo strumento esperibile per denunciare la violazione dei precetti, anche di natura sostanziale, della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, verificatasi in processi già definiti con decisione irrevocabile ed incidenti sul giudizio di responsabilità penale, nel caso specifico non era ravvisabile la trasgressione dell’art. 7 della predetta Convenzione. Ad avviso della Corte di merito, sebbene la condotta concorsuale ascritta al Gddddd fosse consumata in epoca antecedente alla pronuncia della sentenza della Suprema Corte di cassazione, Sez. U., n. 16 del 5/10/1994, ddddd che aveva risolto positivamente il tema della configurabilità della fattispecie del concorso esterno in associazione di stampo mafioso, per ciò solo all’epoca non poteva ravvisarsi un deficit strutturale nel sistema giuridico nazionale in dipendenza dell’assenza di una disposizione normativa dal chiaro tenore precettivo, nè l’imprevedibilità dell’incriminazione dei comportamenti riconducibili a quella fattispecie criminosa. Richiamando le più recenti pronunce di legittimità, la Corte di appello escludeva potessero trovare applicazione al caso i principi affermati nella sentenza della Corte EDU n. 3 del 14/04/2015 nel caso Contrada c. Italia, che aveva condannato lo Stato italiano a risarcire il danno patito da quel ricorrente per essere stato costui destinatario di sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, commesso nel periodo tra il 1979 ed il 1988, in violazione dell’art. 7 della Convenzione EDU. Ad avviso della Corte distrettuale, il reato in questione era stato individuato a seguito di elaborazione giurisprudenziale, fondata sulla previsione normativa del combinato disposto dei preesistenti artt. 110 e 416-bis c.p. ed i suoi elementi costitutivi erano stati chiariti e fissati con sufficiente precisione con la pronuncia delle Sezioni Unite D., che non aveva riconosciuto una nuova fattispecie incriminatrice, ma aveva ammesso la responsabilità anche del soggetto agente che, pur non essere affiliato ad organizzazione di stampo mafioso, le fornisca un consapevole apporto, dotato di efficienza causale, nella realizzazione dei suoi scopi antigiuridici
Inoltre, ribdita la necessità di considerare la concreta vicenda processuale dell’istante, la sua condizione individuale al momento del fatto e le modalità di conduzione della difesa durante il processo di cognizione, evidenziava che nei confronti del dddddd tutti i gradi del giudizio di cognizione era stato contestato ed accertato il compimento di varie condotte di agevolazione del compimento di affari illeciti in favore di esponenti mafiosi appartenenti alla famiglia di Marsala, nonchè di imprenditori a tale organizzazione vicini, al fine di consentire loro l’aggiudicazione di gare per lavori pubblici e di garantire all’associazione l’affluenza di contributi in denaro versati dagli aggiudicatari, nonchè il prezzo della rivendita di prodotti agricoli, provento di furto; inoltre, egli era stato ritenuto responsabile di un’estorsione, consumata nella consapevolezza di offrire un contributo apprezzabile alla vita ed all’operato della cosca mafiosa e di ulteriori condotte agevolatrici della stessa. A conferma, indicava l’originaria elevazione a carico del G. dell’accusa di partecipazione all’associazione quale intraneo ex art. 416-bis c.p. e la chiara indicazione della finalità dei comportamenti incriminati a fornire sostegno ed ausilio a quella realtà criminale associata, sicchè, seppur non fosse stata prevedibile la pronuncia del verdetto di colpevolezza in ordine all’ipotesi partecipativa o, in alternativa, a quella concorsuale, entrambe comunque già delineate nell’interpretazione giurisprudenziale, le due opzioni decisorie non avrebbero comportato un diverso trattamento sanzionatorio.
- Ricorre per cassazione Gdddddd. a mezzo del difensore, avv.ddddd, articolando i seguenti motivi.
2.1 Inosservanza dell’art. 630 c.p.p. nel testo risultante dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 113 del 2011 e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’esercizio del potere-dovere di revisione della condanna. La Corte di appello, pur avendo richiamato corretti principi sull’ammissibilità dell’istanza di revisione, ha errato nel negare alla sentenza della Corte EDU n. 3/2015, pronunciata nel caso Contrada, valore generale estensibile anche a casi analoghi per avere omesso ogni raffronto tra la situazione del ricorrente e quella del Contrada e, anzichè riesaminare la sentenza di condanna, oggetto di revisione, si è impegnata nell’analisi, condotta in modo eccentrico, inopportuno e superfluo, della sentenza della Corte EDU. 2.2 Inosservanza degli artt. 125 e 630 c.p.p. e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla portata generale ed alla compatibilità della sentenza della Corte EDU n. 3 del 2015 con l’ordinamento interno. La Corte di appello, richiamando alcuni passaggi argomentativi tratti dalle sentenze della Suprema Corte di cassazione n. 8661/2018 e n. 36505/2018, ha negato che dalla predetta sentenza possa ricavarsi l’accertamento circa il deficit sistemico dell’ordinamento interno nella previsione della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, che, al contrario, è stato riconosciuto anche dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 44193 del 2016 e da autorevole dottrina. Al contrario, una volta ravvisato il contrasto tra la sentenza Europea ed i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, la Corte di appello non avrebbe potuto semplicemente disapplicare la decisione della Corte sovranazionale, cui si è, invece, conformata la Corte di legittimità con la sentenza sez. 1, n. 43112 del 2017, ma avrebbe dovuto sollecitare l’adozione dei “controlimiti” da parte della Corte costituzionale, investendola della questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p..
2.3 Inosservanza degli artt. 629 e 630 c.p.p. e dell’art. 5 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’esame della posizione del ricorrente. La Corte di appello non ha condotto l’analisi del caso in base agli stessi indici richiamati e già indicati dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 44193/2016, ossia alle caratteristiche della vicenda processuale, alla condizione personale dell’imputato ed all’articolazione della difesa nel corso del processo in riferimento alla possibile qualificazione alternativa della condotta fra partecipazione e concorso esterno in associazione mafiosa, elementi che avrebbero dovuto indurre ad escludere la prevedibilità in termini di concorso esterno in associazione mafiosa della rilevanza penale della condotta contestata.
2.4 Mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla natura di diritto consolidato della sentenza n. 3/2015 della Corte EDU, la cui decisione, riguardante la irretroattività della norma penale incriminatrice, valevole anche per il diritto di creazione giurisprudenziale, non può considerarsi innovativa, ma costituisce espressione di un principio consolidato della giurisprudenza Europea, le cui pronunce hanno tutte natura vincolante ed autorità interpretativa per il giudice interno.
2.5. Inosservanza dell’art. 117 Cost. e art. 32 CEDU e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’efficacia della sentenza n. 3/2015 della Corte EDU. La Corte di appello, nel disconoscere il tenore vincolante della sentenza della Corte EDU sul caso Contrada, ha violato l’art. 32 CEDU, che assegna alla medesima Corte in via esclusiva la cognizione di tutte le questioni relative all’applicazione ed interpretazione della stessa Convenzione.
2.6. Inosservanza degli artt. 3, 24, 97, 111 e 117 Cost. e artt. 13 e 14 CEDU in relazione all’applicabilità della sentenza n. 3/2015 della Corte EDU a casi diversi da quelli del ricorrente Contrada. La Corte di appello è venuta meno anche all’obbligo che incombe sul giudice nazionale di evitare nuove violazioni dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, analoghe a quelle già riscontrate, indipendentemente dalla circostanza che la vittima abbia o meno adito la Corte europea. La contraria interpretazione comporterebbe un’irragionevole discriminazione e la violazione del diritto al ricorso effettivo ex art. 13 CEDU, nonchè dei diritti di uguaglianza, di azione, di imparzialità ed al giusto processo.
Il ricorrente ha concluso, chiedendo la rimessione della decisione alle Sezioni Unite per la soluzione del contrasto, emerso tra le sezioni semplici, in ordine a tre questioni rilevanti, ossia: alla portata generale o meno della sentenza della Corte EDU sul caso Contrada; all’utilizzo erga alios nell’ambito del giudizio di revisione della pronuncia favorevole, emessa dalla Corte EDU; allo strumento azionabile da parte degli imputati condannati irrevocabilmente per fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, che versino in situazioni analoghe a quella giudicata dalla Corte EDU quando abbia accertato la violazione di norme di diritto sostanziale. Ha dedotto che, qualora non fossero ritenuti esperibili da parte del ricorrente la revisione, o, in alternativa, l’incidente di esecuzione, dovrebbe essere sollevata la questione di costituzionalità dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede possa essere chiesta la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna quando ciò sia necessario per uniformarsi ad una sentenza della Corte EDU, emessa a favore di altro condannato, da parte di coloro che si trovino in condizioni identiche.
- La Sesta Sezione penale, cui il ricorso è stato inizialmente assegnato, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite. Partendo dalla considerazione dei principi espressi in tema di revisione Europea dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2011, dopo una rassegna degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sull’obbligo del giudice nazionale di conformarsi alle decisioni assunte dalla Corte EDU, ha tratto la conclusione che, per i soggetti condannati irrevocabilmente in situazione analoga a quella di altro soggetto, che abbia ottenuto dalla predetta Corte sovranazionale l’accertamento della patita violazione di norme di diritto sostanziale, l’unico rimedio proponibile è costituito dall’incidente di esecuzione, a condizione che la lesione lamentata non comporti la riapertura del processo già definito o l’esercizio di poteri preclusi al giudice dell’esecuzione, mentre resterebbe privo di tutela colui che intenda giovarsi della sentenza Europea, resa nei confronti di altri. Lo strumento della revisione Europea, infatti, è attivabile nei soli casi in cui deve essere data esecuzione alle pronunce di condanna dello Stato emesse dalla Corte EDU in base agli obblighi di conformazione previsti dall’art. 46 della Convenzione.
Con specifico riferimento agli effetti prodotti nell’ordinamento interno dalla sentenza della Corte EDU n. 3 del 2015, la Sezione rimettente ha riscontrato l’emersione di due diverse soluzioni interpretative, formatesi nella giurisprudenza della Suprema Corte: per una, gli effetti della pronuncia non possono estendersi oltre il caso specifico risolto e lo strumento della revisione Europea è esperibile da parte di chi pretenda di giovarsi della sentenza della Corte sovranazionale, resa nei confronti di altri, se la stessa sia qualificabile come sentenza pilota, oppure abbia rilevato un problema strutturale dell’ordinamento interno, insito nell’applicazione di una norma di legge, ma a condizione della previa proposizione di incidente di costituzionalità per violazione dell’art. 117 Cost. e della declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione applicata. Per altra linea interpretativa, la revisione Europea si può attivare esclusivamente se l’accertamento della lamentata violazione della norma di legge sia contenuto in pronuncia della Corte Europea, emessa nella stessa vicenda concreta, che fonda l’obbligo per lo Stato condannato di adottare misure volte a rimuovere il difetto strutturale riscontrato, mentre deve esservi negato effetto estensivo generalizzato a favore di altri soggetti, il cui giudicato di condanna può essere rimosso ai sensi dell’art. 673 c.p.p. nei soli limiti dell’abolizione della norma incriminatrice o della pronuncia di incostituzionalità.
Dopo avere espresso rilievi critici ad entrambe le opposte soluzione ermeneutiche, ha prospettato una terza opzione, ritenuta più coerente con la pronuncia della Corte EDU nel caso Contrada, secondo la quale, poichè con tale decisione si è inteso censurare, non già la fonte della punizione dell’illecito penale, ma la qualità della previsione per la scarsa prevedibilità della norma a causa delle incertezze interpretative, ai casi di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso prima di tale pronuncia, non potrebbe più trovare applicazione la fattispecie come delineata dall’intervento interpretativo delle Sezioni Unite nella sentenza D., mentre resta controversa e da risolvere l’individuazione dello strumento interno, idoneo ad evitare disparità di trattamento, estendendo il principio affermato dalla Corte EDU. 4. Con decreto in data 5 giugno 2019, il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’udienza pubblica.
- Intervenuta in data 17 settembre 2019 la revoca dei precedenti difensori e la designazione da parte del ricorrente degli avv.ddddddd, il 27 settembre 2019 è stata depositata memoria, contenente la proposizione di motivi nuovi, con i quali si sono illustrati con ulteriori argomentazioni quelli originari. Si è dedotto che la questione sollevata dell’ultrattività della decisione della Corte EDU nel caso Contrada sottende l’affermazione del principio di non retroattività dell’interpretazione giurisprudenziale in malam partem sin quando non sia consolidata da una pronuncia delle Sezioni Unite. Letta in base ai criteri elaborati dalla Corte costituzionale, la sentenza Contrada ha portata vincolante, in quanto conforme al diritto vivente Europeo ed in linea di continuità con decisioni precedenti riguardanti l’art. 7 della Convenzione, per le quali il principio di legalità vieta di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che in precedenza non erano reputati illeciti o di applicare la legge esistente in via estensiva a svantaggio dell’imputato e nella relativa indagine deve tenersi conto anche della fonte giurisprudenziale: ne consegue che, per i giudici Europei, il principio di legalità è violato quando una fattispecie di reato risulti interpretata in termini divergenti e variabili dalla giurisprudenza con l’impossibilità per il cittadino di conoscere se il comportamento che intende tenere sia lecito o vietato, nonchè quando la condanna sia basata su di una previsione incriminatrice, interpretata in malam partem rispetto all’orientamento dominante.
Inoltre, la sentenza Contrada non enuncia principi incompatibili con l’ordinamento interno e, avendo riscontrato un deficit di sistema per la scarsa chiarezza della norma penale e dell’interpretazione giudiziale, non consente soluzioni da adottare con approccio casistico nell’ambito della situazione concreta del singolo condannato.
Deve dunque ritenersi esperibile il rimedio della revisione Europea, o, in subordine, dell’incidente di esecuzione, attivabile nei soli casi in cui l’adattamento riguardi il solo profilo sanzionatorio; in caso se ne negasse la proponibilità, l’unica alternativa consiste nella proposizione di incidente di costituzionalità dell’art. 630 c.p.p. nei termini indicati in ricorso, essendo la questione rilevante per la soluzione del caso e non manifestamente infondata. In ulteriore alternativa si prospetta l’espansione dello strumento dell’incidente di esecuzione della revoca della sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p. per sopravvenuta declaratoria di incompatibilità della norma incriminatrice, regolante il caso, con l’art. 7, p. 1, della Convenzione EDU, come riconosciuto nella sentenza della Corte EDU nel caso G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia, con eventuale proposizione di questione di incostituzionalità della norma stessa nella parte in cui non prevede la revoca della condanna per violazione del diritto della Convenzione anche in favore del soggetto che non abbia adito la Corte sovranazionale, ma abbia subito la medesima violazione.
- Con ulteriore memoria a firma dell’avv.to ddddd, nuovamente incaricato dal ddG. della sua difesa unitamente all’avv.to dd, previa revoca del mandato conferito all’avv.to ddddd, sono state illustrate le tematiche già trattate nel ricorso e si è espressa adesione ai rilievi esposti nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite circa la non condivisibilità dei principi sostenuti dall’orientamento maggioritario delle pronunce della Suprema Corte. Si è quindi prospettata una quarta possibile soluzione ai temi sollevati in ricorso, sostenendo la ammissibilità del ricorso alla revisione Europea in tutti i casi in cui il deficit di prevedibilità in concreto dell’incriminazione e della sanzione penale includa la possibilità di condanna in alternativa per partecipazione ad associazione di stampo mafioso, oppure per concorso esterno nella medesima fattispecie. La prevedibilità in concreto non va riferita alle difese spiegate nel corso del processo, ma al fatto nelle sue manifestazioni naturalistiche per distinguere i comportamenti che, in base alla giurisprudenza formatasi prima della ddd erano considerati integrare la condotta partecipativa, da quelli che erano ritenuti penalmente irrilevanti sino alla precisazione della nozione di concorso esterno nel reato associativo, come operata nella predetta sentenza delle Sezioni Unite. L’operazione in questione dovrebbe individuare quali fatti tra quelli ascrittigli rientrassero nella condotta partecipativa, distinguendoli da quelli che hanno assunto rilevanza come concorso esterno o che non ne hanno nessuna, per ravvisare la prevedibilità in concreto della condanna soltanto in ordine alle prime. In merito alla posizione del ddddG., è mancata la prova della partecipazione alla cosca mafiosa di Marsala e si è accertata una mera contiguità compiacente, che esula sia dalla fattispecie associativa, sia da quella concorsuale esterna, sicchè egli non era stato nemmeno nella condizione di prefigurarsi la rilevanza penale dei fatti commessi.
- In data 18 ottobre 2019 è pervenuta memoria a firma dell’avv.to dddd, con la quale si sono offerte ulteriori considerazioni a sostegno dei proposti motivi.
- Il 21 ottobre 2019 sono pervenute delle note di udienza presentate dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Ha richiamato le condivise argomentazioni della sentenza Sezione Prima n. 8661 del 12/01/2018, Esti, per la quale ben diversa è la posizione di chi, dopo avere adito vittoriosamente la Corte EDU, chieda al giudice interno di eliminare gli effetti del giudicato reputato iniquo dalla Corte, rispetto a chi chieda i medesimi benefici, rappresentando al giudice nazionale di trovarsi nella stessa situazione del ricorrente vittorioso, poichè solo nel primo caso il giudice interno ha il dovere di adeguarsi al dictum della sentenza della Corte EDU per effetto dell’art. 46 della Convenzione Europea, che stabilisce l’obbligo per gli Stati contraenti, di uniformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU per le controversie in cui sono parte. Al di fuori di questa ipotesi soltanto le sentenze c.d. pilota o quelle che accertino una violazione delle norme convenzionali per effetto di una carenza di struttura o di sistema dell’ordinamento giuridico nazionale sono suscettibili di produrre effetti favorevoli anche per la posizione di soggetti che non abbiano ottenuto una pronuncia favorevole dalla Corte EDU. Per quanti non siano destinatari diretti di pronunce favorevoli di tale organismo il giudice nazionale è libero di apprezzare la portata della decisione e la sua estensibilità ad altri casi analoghi, che nel presente procedimento non è espressione di una giurisprudenza Europea consolidata e non accerta una violazione destinata a ripetersi in casi similari. Inoltre, la stessa ha errato nel ricondurre un semplice mutamento interpretativo della norma di legge, pienamente consentito anche dalla Convenzione, ad un mutamento del diritto giurisprudenziale applicabile, senza che ad essa possa ricollegarsi un effetto generale. Il mutamento interpretativo nel caso del concorso esterno in associazione di stampo mafioso si è tradotto nel recepimento da parte delle Sezioni Unite di una delle tesi ermeneutiche in contrasto, che però risolvevano la questione, rapportando la condotta costituita dal contributo consapevole dato da un soggetto ad organizzazione mafiosa alle due fattispecie alternative della partecipazione o del concorso esterno, senza averne mai affermato la liceità. In tale modo non si è offerta un’imprevedibile soluzione, mai preannunciata ed in violazione del principio dell’affidamento, ma si è accolto un significato possibile e prevedibile attribuito agli enunciati normativi in vigore al momento del fatto, senza che possa ravvisarsi la dedotta violazione dell’art. 7 della Convenzione. Pertanto, dalla sentenza D. non è conseguito per il Contrada, così come per il G. o per altri soggetti condannati per concorso esterno per fatti commessi prima di ottobre 1994, nessun pregiudizio, poichè l’incertezza circa l’incriminazione delle condotte compiute a titolo di concorso esterno comportava l’alternativa prevedibile della condanna per il reato di partecipazione all’associazione.
Motivi della decisione
- Le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere la seguente questione di diritto: “se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile”.
- Sul tema principale posto dal procedimento si registra effettivamente un contrasto di opinioni nella giurisprudenza di legittimità.
2.1 Secondo una prima linea interpretativa, sostenuta da Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, Rv. 267861, (cui si è uniformata anche Sez. 1, n. 53610 del 10/04/2017, Gorgone), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del diniego di revoca della sentenza di condanna definitiva, inflitta al ricorrente per il delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, commesso prima del 1994, è inammissibile il ricorso all’incidente di esecuzione in quanto, nonostante la contestazione all’imputato di condotta illecita in termini analoghi per titolo di reato e per estensione temporale rispetto a quella ascritta al Contrada, l’accertato deficit di prevedibilità dell’illecito e della pena conseguibile dalla sua commissione, riscontrato per quest’ultimo condannato, richiede la valutazione della concreta vicenda fattuale e processuale del soggetto che invochi l’applicazione degli stessi principi, che nel caso specifico differiva da quella del Contrada. La pronuncia in questione non ha natura di sentenza “pilota” e non ha rilevato una carenza strutturale dell’ordinamento italiano da superare mediante una riforma di valenza generale, – uniche situazioni nelle quali può invocarsi gli effetti favorevoli di una sentenza della Corte EDU a casi non direttamente esaminati, ma analoghi -, ma ha riscontrato il difetto di prevedibilità della qualificazione giuridica del comportamento di agevolazione di un’associazione mafiosa in termini di concorso esterno, piuttosto che di partecipazione all’associazione stessa o di favoreggiamento. Per poter beneficiare degli effetti di siffatta pronuncia, in cui il limitato deficit strutturale rilevato dal giudice Europeo è dipendente da una norma di legge sostanziale, è comunque necessario attivare l’incidente di costituzionalità della disposizione per violazione dell’art. 117 Cost. e, solo qualora intervenga la declaratoria di illegittimità costituzionale, la rimozione o la modifica del giudicato di condanna potranno essere conseguiti mediante proposizione della domanda di revisione Europea, – strumento da esperire in via privilegiata ed in termini di priorità logica, secondo le indicazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011 – se la rimozione della lesione debba avvenire mediante la riapertura del processo di cognizione, già a suo tempo definito, oppure, in alternativa, dell’incidente di esecuzione in presenza di altre disposizioni di legge che prestabiliscano e consentano di conseguire l’effetto sperato, come nel caso dell’abolitio criminis o dell’adattamento del solo trattamento sanzionatorio, fermo restando il giudizio di responsabilità.
In termini adesivi si pone anche la successiva sentenza sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019, Dell’Utri, che, nel respingere la domanda di revisione Europea proposta dal predetto ricorrente, ha interpretato il contenuto della decisione Contrada come privo di valenza generalizzante e riferibile tout court ad ogni caso di condanna per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, pronunciata per fatti verificatisi prima dell’ottobre 1994 e ne ha negato la collocazione nell’ambito di una linea interpretativa consolidata.
2.2 Secondo un diverso orientamento, invece, l’obbligo di conformazione nascente dall’art. 46 CEDU riguarda soltanto il caso specifico affrontato dalla Corte EDU, i cui principi, privi di portata generale, non sono esportabili in riferimento a situazioni processuali analoghe. Nel caso specifico della sentenza Contrada in senso ostativo all’estensione si pone la considerazione che nell’ordinamento interno, governato dal principio di legalità formale e di tassatività, non può trovare ingresso una fattispecie penale di creazione giurisprudenziale, tale comunque non potendo definirsi il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, che è frutto della combinazione della norma speciale incriminatrice e della clausola più generale di cui all’art. 110 c.p. (Sez. 1, n. 8661 del 12/01/2018, Esti, Rv. 272797; Sez. 1, n. 36505 del 12/06/2018, Corso; Sez. 1, n. 36509 del 12/06/2018, Marfia, Rv. 273615; Sez. 1, n. 37 del 04/12/2018, dep. 2019, Grassia; Sez. 5, n. 55894 del 03/10/2018, P, Rv. 274170; Sez. 1, n. 15574 del 19/02/2019, Papa).
In continuità con tale posizione interpretativa si colloca anche la sentenza sez. 1, n. 13856 del n. 13856 del 27/2/2019, con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall’odierno ricorrente G.S. avverso il provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva respinto la sua richiesta di revoca del giudicato di condanna sul presupposto della negazione della portata generale della sentenza della Corte EDU nel caso Contrada e della sua esportabilità per la decisione di casi analoghi.
2.3 Con l’ordinanza di rimessione la Sesta Sezione Penale si è confrontata in termini dissenzienti con entrambe le impostazioni citate: alla ricostruzione offerta dalla sentenza Esti e da quelle successive ad essa conformi ha addebitato il fraintendimento della nozione di diritto, in relazione alla quale si è ravvisata da parte della sentenza Corte EDU nel caso Contrada la violazione del principio di legalità, perchè, in continuità con quanto già riconosciuto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651, nella giurisprudenza della Corte Europea tale principio viene riconosciuto e garantito in relazione, sia al diritto di produzione legislativa, sia a quello creato dall’interpretazione giurisprudenziale nell’ambito dell’intervento ricognitivo del contenuto e dell’esatta portata applicativa della disposizione di legge in riferimento ad un caso concreto. Per la Sezione rimettente, l’essenza della decisione Europea sta piuttosto nell’aver posto l’accento, non sulla natura della fonte di produzione, quanto sulle inalienabili qualità di accessibilità e prevedibilità della legge, che, se insussistenti, rendono la pronuncia di condanna in contrasto con la norma convenzionale dell’art. 7.
Anche alla soluzione ermeneutica espressa dalla sentenza Dell’Utri del 2016 l’ordinanza di rimessione ha mosso articolate obiezioni; pur riconoscendo che tale pronuncia ha correttamente individuato nella carenza di prevedibilità della punizione penale la ratio decidendi della determinazione assunta dalla Corte Europea, la stessa avrebbe errato nel riferire la prevedibilità dell’incriminazione al piano soggettivo ed individuale dell’imputato, ossia alla sua condizione ed esperienza personale ed alla linea di condotta difensiva assunta nel processo di cognizione, e non al profilo oggettivo della struttura della disposizione quanto a dato formale ed all’interpretazione giurisprudenziale affermatasi al momento del compimento della condotta. Al contrario, per la Sesta Sezione Penale, facendo leva sulla nozione di prevedibilità in senso oggettivo e sulla sua accertata carenza per la ravvisata incertezza circa la riconducibilità dei comportamenti contestati alla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, oppure ad altre ipotesi criminose di minore gravità quali il favoreggiamento personale, in alternativa alla loro liceità, la Corte Europea ha riscontrato un deficit sistemico nell’ordinamento giuridico interno in termini di non prevedibilità della norma incriminatrice e della relativa pena, sicchè la sua pronuncia riveste portata generale, tale da poter essere estesa anche ad altri condannati per la medesima fattispecie, realizzata prima del febbraio 1994, risultando soltanto di incerta individuazione lo strumento processuale per conseguire tale risultato.
- La soluzione del quesito giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite postula la preventiva ricognizione dei contenuti decisori della sentenza del 14/04/2015, emessa nel caso Contrada contro Italia dalla Quarta Sezione della Corte EDU, cui era stata devoluta la questione della compatibilità con il diritto convenzionale della condanna, pronunciata dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006 per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso da Contrada tra il 1979 ed il 1988, sul presupposto che in riferimento a tale arco temporale in giurisprudenza non era stato ancora univocamente risolto il quesito circa la configurabilità della fattispecie ravvisata e di conseguenza non era possibile prevedere il carattere illecito della condotta e la connessa sanzione, che sarebbero stati oggetto di interventi risolutivi da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione soltanto in epoca successiva con la pronuncia n. 16 del 5/10/1994, D..
3.1 La Corte EDU ha accolto la domanda e le ragioni di doglianza di Contrada, cui ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale sofferto a causa della violazione dell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, ritenendo che: “l’evoluzione giurisprudenziale in questa materia, posteriore ai fatti ascritti al ricorrente, dimostra che all’epoca in cui tali fatti sarebbero avvenuti il ricorrente non poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze, in termini di sanzione, delle sue presunte azioni, in quanto l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso all’epoca dei fatti era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti”.
Passati in rassegna i principi tratti dalla propria giurisprudenza in ordine alle garanzie riconosciute dall’art. 7 della Convenzione, definite “un elemento essenziale dello stato di diritto” non derogabile nemmeno in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico, la Corte EDU ha precisato che la disposizione non esaurisce la propria portata nella proibizione dell’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato, ma sancisce il principio della legalità dei delitti e delle pene nullum crimen, nulla poena sine lege, vietando di estendere il campo di applicazione dei reati già esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano illecito penale ed anche di applicare la legge penale in modo estensivo a sfavore dell’imputato, come nel caso del ricorso all’analogia. La chiara definizione dei reati e delle pene con le quali essi sono puniti si realizza se la persona sottoposta a giudizio può conoscere dal testo della disposizione pertinente, con l’ausilio dell’interpretazione giudiziale e di consulenti, per quali atti e omissioni viene attribuita la responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti. Ed è compito della stessa Corte Europea, non già di interpretare il diritto di ciascuno Stato membro o di offrire qualificazione giuridica ai fatti oggetto del processo, funzione demandata ai giudici nazionali, ma di verificare che all’epoca della commissione del comportamento, oggetto di incriminazione e di condanna, “esistesse una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione”, in modo tale che il risultato dell’attività cognitiva giudiziale sia stato rispettoso dell’art. 7 della Convenzione.
Premesse tali affermazioni di principio, la Corte sovranazionale ha osservato che nel caso del Contrada, secondo indicazione concorde e pacifica tra le parti, il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso ha origine giurisprudenziale e che la sua sussistenza era stata oggetto di soluzioni divergenti nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità nel lasso temporale in cui l’imputato aveva tenuto i comportamenti incriminati. Ha quindi affermato che solo con la sentenza delle Sezioni Unite D. si è ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno, mentre la sentenza di condanna, emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, per pervenire al giudizio di colpevolezza si era basata su affermazioni di principio desunte da pronunce delle Sezioni Unite, tutte posteriori ai fatti ascritti all’imputato. Ha, infine, concluso nel senso che “il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza D.”, sostenendo che all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti (1979-1988) “il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo”, così escludendo che il ricorrente avesse potuto conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti e in tal modo ha riconosciuto la lamentata violazione dell’art. 7 della Convenzione.
3.2 La vicenda personale del ricorrente Contrada è proseguita anche dopo la citata sentenza della Corte EDU a seguito della proposizione presso gli organi giudiziari interni, da un lato della domanda di revisione della condanna, che, una volta respinta dalla Corte di appello di Caltanissetta, era stata coltivata mediante ricorso per cassazione, cui però l’interessato aveva rinunciato, dall’altro di incidente di esecuzione per ottenere la conformazione alla pronuncia della Corte sovranazionale: in riferimento a quest’ultima iniziativa, respinta dalla Corte di appello di Palermo, il successivo ricorso è stato accolto dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione, che, con sentenza n. 43112 del 6/07/2017, Contrada, Rv. 273905, ha dichiarato ineseguibile nei suoi confronti la sentenza di condanna passata in giudicato.
- Il quesito all’odierno esame richiede di affrontare il tema preliminare dell’individuazione della natura e della portata della decisione della Corte EDU nel caso Contrada contro Italia.
4.1 Il ricorrente G.S., senza essere destinatario di una pronuncia favorevole della Corte Europea di contenuto sovrapponibile a quella conseguita dal Contrada, ne invoca gli effetti vantaggiosi per conseguire la revoca della sentenza definitiva di condanna sul presupposto del riscontro da parte della Corte sovranazionale di una violazione di ordine generale, tale da travalicare il singolo caso risolto e da imporre allo Stato convenuto l’obbligo giuridico di conformazione ai principi affermati dalla stessa Corte EDU in favore del Contrada, in modo da impedire il futuro ripetersi di analoghe trasgressioni nell’interesse generale dei soggetti che, pur senza avere adito la Corte Europea, versino in situazione identica a quella già da questa vagliata.
4.2 Ad avviso delle Sezioni Unite, non può convenirsi con la tesi difensiva, come recepita dalla Sezione rimettente.
Il ricorrente non può invocare in proprio favore l’applicazione diretta dell’art. 46 della CEDU, per il quale “gli Stati contraenti sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte”, non essendo stato parte del giudizio al cui esito è stata pronunciata la sentenza Contrada. S’impone quindi la verifica circa la sussistenza delle condizioni che legittimino l’attribuzione alla stessa decisione dell’idoneità all’applicazione generalizzata degli affermati principi e la riferibilità della violazione dell’art. 7 CEDU a tutti i casi di condanna già irrevocabile per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, consumato in epoca antecedente al febbraio 1994.
La soluzione risiede nella considerazione della natura della violazione della norma convenzionale riscontrata e dei rimedi per la sua eliminazione.
E’ opportuno premettere che nel sistema convenzionale l’espansione degli effetti di una decisione della Corte EDU ad altri casi non oggetto di specifica disamina rinviene una base normativa nell’art. 61 del regolamento CEDU, per il quale, ove venga rilevata una violazione strutturale dell’ordinamento statale, causa della proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, è possibile adottare una sentenza “pilota”, che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al decisum della sentenza stessa con eventuale rinvio dell’esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell’adozione dei rimedi indicati.
Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perchè, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all’esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione. La nozione di sentenza a portata generale trova fondamento positivo nel predetto art. 61, comma 9 il quale stabilisce testualmente che: “Il Comitato dei Ministri, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il Segretario generale del Consiglio d’Europa e il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa sono informati sistematicamente dell’adozione di una sentenza pilota o di qualsiasi altra sentenza in cui la Corte segnali l’esistenza di un problema strutturale o sistemico all’interno di una Parte contraente”. In tali situazioni il riscontro della violazione dei diritti individuali del proponente il ricorso contiene in sè anche l’accertamento di lacune ed imperfezioni normative o di prassi giudiziarie, proprie dell’ordinamento interno scrutinato, contrarie ai precetti della Convenzione, che assumono rilevanza anche per tutti coloro che subiscano identica violazione, sicchè l’obbligo di adeguamento dello Stato convenuto trascende la posizione del singolo coinvolto nel caso risolto, ma investe tutti quelli caratterizzati dalla sussistenza di una medesima situazione interna a portata generale di contrarietà alle previsioni convenzionali.
Se ne trae conferma dalla giurisprudenza della Corte EDU che, sin dalla sentenza della Grande Camera del 13/07/2000 nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, ha affermato il principio, poi più volte ribadito, per il quale “quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie” aventi contenuto ripristinatorio, ossia quegli interventi specificamente suggeriti dalla Corte Europea, oppure individuati in via autonoma dallo Stato condannato, purchè idonei ad eliminare il pregiudizio subito dal ricorrente, che deve essere posto, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non si fosse verificata l’inosservanza delle norme della Convenzione (in termini Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Georgia).
Ulteriori significative indicazioni provengono in tal senso anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, impegnatasi più volte nel definire i rapporti tra giudice Europeo e giudice interno nell’attività di interpretazione della legge nel rispetto della gerarchia delle fonti di produzione normativa, ha assegnato valore vincolante e fondante l’obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla statuizione contenuta in sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l’ha originata, “tenda ad assumere un valore generale e di principio” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015). A fronte di tali presupposti, allo Stato convenuto ed al suo giudice non è consentito negare di dar corso alla decisione adottata dalla Corte di Strasburgo e di eliminare la violazione patita dal cittadino mediante i rimedi apprestati dall’ordinamento interno. Qualora, invece, non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall’attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una “funzione interpretativa eminente” sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli secondo quanto previsto dall’art. 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte Cost., sent. nn. 348 e 349 del 2007).
Gli approdi, definitivamente acquisiti, della giurisprudenza costituzionale mostrano lo sforzo compiuto per conciliare autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione con la Corte Europea, affinchè il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso e riceva effettiva attuazione. Si è affermato che il giudice comune, nell’interpretare la disposizione del proprio ordinamento interno deve recepire i contenuti della “giurisprudenza Europea consolidatasi sulla norma conferente” e, qualora, facendo ricorso a tutti gli strumenti di ermeneutica praticabili, la ravvisi in contrasto con i precetti della Carta costituzionale, non potendo disapplicarla, deve investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalità della norma stessa in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, spettando poi a quest’ultimo pronunciarsi in adesione alla giurisprudenza Europea, se uniforme e consolidata, salvo che in via eccezionale non ne riconosca la difformità dalla Costituzione. In questa residuale ipotesi, il giudice delle leggi non può sostituirsi alla Corte EDU nell’interpretare le disposizioni della Convenzione, pena l’usurpazione di prerogative altrui in violazione dell’impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale, ma deve operare un giudizio di bilanciamento, finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione ad un diritto costituzionalmente garantito. Nel diverso caso, in cui il giudice interno ravvisi l’incompatibilità tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente Europeo e la Costituzione, in assenza di un “diritto consolidato” il relativo dubbio è sufficiente per negarvi i potenziali contenuti assegnabili secondo la giurisprudenza sovranazionale e per operarne l’interpretazione costituzionalmente orientata, – doverosa e prioritaria rispetto a qualsiasi altra possibile -, che esclude la necessità di sollevare incidente di costituzionalità (Corte Cost., sent. n. 113 del 2011; sent. n. 311 del 2009).
Rileva che, nel condurre tali verifiche, il giudice comune non resta relegato nella posizione di mero esecutore o di recettore passivo del comando contenuto nella pronuncia del giudice Europeo, poichè una tale subordinazione finirebbe per violare la funzione assegnatagli dall’art. 101 Cost., comma 2, ed eludere il principio che ne prevede la soggezione soltanto alla legge e non ad altra fonte autoritativa, principio che non soffre eccezioni neppure in riferimento alle norme della CEDU, che hanno valenza nell’ordinamento interno grazie ad una legge ordinaria di adattamento. Il giudice nazionale dispone quindi di un margine di apprezzamento del significato e delle conseguenze della pronuncia della Corte EDU, purchè ne rispetti la sostanza e la stessa esprima una decisione che si collochi nell’ambito del diritto consolidato e dell’uniformità dei precedenti, mentre “nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009). Ha avvertito la Consulta che l’esigenza di rispettare indicazioni esegetiche conformi e costanti, stabili rispetto ad altre pronunce della stessa Corte sovranazionale, nasce dalla constatazione della vocazione casistica dei suoi interventi decisori, legati alla situazione concreta esaminata e del loro flusso continuo di produzione in riferimento ad una pluralità e varietà di corpi legislativi di riferimento; non dipende, pertanto, dalla negazione della natura vincolante delle pronunce emesse dalle singole sezioni, piuttosto che dalla Grande Camera, quanto dalla necessità di individuare un pronunciamento che non sia isolato o contraddetto da altri di segno diverso (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011; n. 49 del 2015).
Del resto, è l’art. 28, comma 1 lett. b), come modificato dal Protocollo addizionale n. 14 della CEDU, a conferire un maggiore grado di autorevolezza e di capacità persuasiva alle pronunce espressive di un principio consolidato, tanto da consentire che la decisione sul ricorso individuale sia adottata da un comitato di tre giudici, anzichè da una Camera nella composizione ordinaria di sette giudici, e che la stessa sia direttamente definitiva, quando la questione di interpretazione ed applicazione delle norme della Convenzione o dei suoi Protocolli all’origine della causa è oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte. Nozione questa che è stata costantemente richiamata e considerata quale criterio selettivo degli obblighi di adeguamento per il giudice interno dalla Consulta sino alle sue più recenti pronunce (Corte Cost., sent. nn. 187/2015; 36/2016; 102/2016; 200/2016; 68/2017; 43/2018; 25/2019; 66/2019), per le quali “la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un “approdo giurisprudenziale stabile” (sentenza n. 120 del 2018) o un “diritto consolidato” (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011)” (sent. n. 25/2019), nonchè dalle Sezioni Unite, sia civili (n. 9142 del 06/05/2016, Rv. 639530), che penali (n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267486).
La Corte costituzionale, consapevole delle difficoltà per il singolo interprete di riconoscere nel contesto della giurisprudenza Europea sui diritti fondamentali un orientamento contrassegnato da adeguato consolidamento, ha individuato i seguenti criteri negativi da impiegare a tal fine: “la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza Europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice Europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano” (sent. n. 49/2015). La ricorrenza di tutti o di alcuni di tali indici svincola il giudice comune dal dovere di osservanza della linea interpretativa adottata dalla Corte EDU nella risoluzione della singola fattispecie concreta.
4.3 La Sezione rimettente ha evidenziato al riguardo che la portata interpretativa della citata sentenza n. 49 del 2015 nei termini come sopra riassunti avrebbe ricevuto smentita ad opera della sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 28/06/2018, G.I.E.M. ed altri c. Italia, per la quale le proprie “sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate” (p. 252).
Osservano le Sezioni Unite che, non soltanto tale lapidaria affermazione non è corredata da nessun rilievo esplicativo, che ne chiarisca il significato in correlazione ed a confutazione delle diffuse e puntuali argomentazioni del giudice costituzionale italiano, ad eccezione delle annotazioni di un giudice di minoranza dissenziente, ma la stessa non pare avere nemmeno colto l’essenza del principio enunciato dalla Corte costituzionale, affidato, non già alla composizione numerica dell’organo giudicante ed alla sua maggiore autorevolezza, quanto all’inserimento della singola pronuncia in un orientamento coerente con i precedenti, che renda acquisito il principio di diritto enunciato. Inoltre, non può sostenersi che la teoria del diritto consolidato costituisca un espediente per avvalorare prassi esegetiche elusive dell’obbligo di dare piena esecuzione alle sentenze della Corte EDU. Attenta dottrina ha evidenziato che proprio la sentenza G.I.E.M. contro Italia offre conferma della fondatezza del criterio prudenziale, prescelto dal giudice costituzionale, allorchè nel 2015 non aveva recepito i principi dettati dalla sentenza Varvara contro Italia del 29/10/2015, laddove si era affermato che la confisca di terreni abusivamente lottizzati, misura che realizza una pena, pretende che il reato non sia prescritto e che sia pronunciata una condanna, e non aveva dichiarato l’incostituzionalità del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2: tali principi non si ascrivono, infatti, al diritto consolidato, perchè successivamente smentiti o fortemente limitati nella loro portata proprio dalla Grande Camera nel 2018, i cui esiti, differenti dal precedente pronunciamento, non avrebbero potuto vanificare gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale nel frattempo eventualmente intervenuta, per loro natura definitivi e non suscettibile di revoca.
- La considerazione della sentenza nel caso Contrada in base ai principi esposti consente di escludere che essa rientri nello schema formale della sentenza pilota e che sul piano contenutistico contenga l’affermazione, esplicita e chiaramente rintracciabile dall’interprete, della natura generale della violazione riscontrata. Al contrario, si sviluppa mediante l’esame del caso specifico ed analizza l’imputazione elevata al ricorrente nel processo celebrato a suo carico, la linea di difesa adottata, le risposte giudiziarie ottenute ed i relativi percorsi giustificativi, incentrati sul tema della definizione giuridica del fatto e della sua prevedibilità. Esprime quindi il giudizio finale di violazione dell’art. 7 CEDU in termini strettamente individuali, ma senza specificare se la trasgressione rilevata riguardi il primo o il secondo periodo dell’art. 7, p. 1, ossia se risieda nell’accertamento in sè di responsabilità penale, oppure nel titolo e nella connessa punizione, come pare potersi dedurre dal seguente inciso conclusivo della motivazione, secondo cui “Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti” (p. 74, cit.). Infine, la sentenza non è corredata da una qualsiasi indicazione in ordine ai rimedi adottabili, suscettibili di applicazione individuale a favore del ricorrente vittorioso, oppure generalizzata nei riguardi di soggetti protagonisti di casi identici o similari per prevenire il futuro ripetersi di violazioni analoghe a quella accertata.
Queste ultime considerazioni sono state rappresentate dal Governo italiano in replica alla richiesta, formulata dal Dipartimento per l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU l’8 febbraio 2018, di informazioni sullo stato dell’adozione di misure generali, conseguenti alla sentenza sul caso Contrada, come già detto non specificate nella loro consistenza, nel senso della non necessità di rimedi sistemici e della sollecitazione ad una revisione del pronunciamento, siccome affetto da errori di fatto e di diritto.
5.1 Resta allora da verificare se alla pronuncia in esame possa assegnarsi portata generale, secondo quanto previsto dal citato art. 61, comma 9 e se vi sia ricavabile il riscontro di una carenza di ordine strutturale nel sistema giuridico italiano, derivante dal testo delle norme di legge pertinenti, lesiva dell’interesse non soltanto del singolo ricorrente, ma di una pluralità di soggetti trovatisi nella medesima situazione processuale.
L’unico profilo che potrebbe autorizzare siffatta conclusione riguarda la stigmatizzazione del contrasto interpretativo, emerso nella giurisprudenza interna, sulla configurabilità quale fattispecie di reato autonoma del concorso esterno in associazione mafiosa, con la conseguente incertezza sulla sua illiceità penale e sulla pena conseguente, pregiudizievole per l’imputato per l’origine giurisprudenziale della fattispecie stessa.
5.2 A ben vedere però il giudizio espresso nella sentenza Contrada si sviluppa, sia sul piano oggettivo, allorchè rileva la carenza di sufficiente chiarezza del reato, sia al contempo su quello soggettivo per la ritenuta imprevedibilità dell’incriminazione delle condotte compiute e della loro punizione da parte dell’imputato alla stregua dell’andamento del processo di cognizione, delle difese articolate e dei contenuti motivazionali delle decisioni susseguitesi. Come puntualmente osservato nella citata sentenza Dell’Utri del 2016, la Corte EDU “pur evidenziando le criticità derivanti dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa non realizza – a ben vedere – una considerazione generalizzata di illegittimità convenzionale di qualsiasi affermazione di responsabilità, per fatti antecedenti al 1994, divenuta irrevocabile”. Tale considerazione, che si condivide perchè aderente alle statuizioni della pronuncia, priva dell’indicazione di misure ripristinatorie, impersonali ed universali, sarebbe già in sè sufficiente per negare l’efficacia estensiva della decisione Contrada nei riguardi di altri condannati per la medesima fattispecie di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ravvisata per comportamenti agevolativi dell’organizzazione, realizzati prima dell’anno 1994.
5.3 Ma ulteriore e non meno rilevante ragione milita a favore di tale conclusione. Considerata alla stregua dei criteri orientativi, formulati dalla giurisprudenza costituzionale, la pronuncia non costituisce espressione di un diritto consolidato, ossia non si inserisce in un filone interpretativo uniforme, costantemente rintracciabile in pronunce di analogo tenore argomentativo e dispositivo. Non risultano, infatti, in precedenza, ma nemmeno dal 2015 ad ora, ulteriori decisioni di accoglimento di ricorsi proposti da soggetti, condannati dallo Stato italiano per la identica fattispecie di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., quanto alla carente prevedibilità della natura di illecito penale delle condotte compiute ed alla pena discendente. Ed anche il ricorso proposto da Marcello Dell’Utri in data 30 dicembre 2014 per far valere analoga violazione, sovrapponibile a quella del Contrada, a distanza di oltre cinque anni è tuttora pendente e non è stato deciso. Inoltre, come segnalato in più contributi dottrinali, nella giurisprudenza Europea non è dato nemmeno rinvenire una univoca e costante impostazione interpretativa ed applicativa dei concetti di accessibilità e prevedibilità del diritto penale, intesi quale possibilità materiale per il cittadino di prendere anticipata conoscenza del comando normativo penale e precognizione delle conseguenze punitive in caso di sua trasgressione, entrambi requisiti qualitativi del principio di legalità. Se è ricorrente nelle sentenze della Corte EDU l’affermazione che, privilegiando l’approccio sostanzialistico rispetto a quello formale e la tradizione giuridica dei paesi di common law, intende il diritto nella più ampia accezione di corpo precettivo e sanzionatorio di formazione, sia legale, che giurisprudenziale, sul presupposto che le pronunce giudiziali contribuiscono a chiarire il significato e l’ambito applicativo della regola generale ed astratta, promanante dalla fonte di produzione parlamentare, non altrettanto unico ed invariato è il criterio in base al quale si è esercitato il sindacato sulla prevedibilità del comando e della sanzione nel valutare i casi giudiziari già risolti dai giudici nazionali, così come non sono costanti e sovrapponibili gli esiti di tale verifica, raggiunti in base ai medesimi criteri.
In numerose pronunce, sia precedenti, che successive a quella resa nei confronti del Contrada, è accolta la concezione soggettiva della prevedibilità, apprezzata in riferimento ad attività professionali, qualifiche ed esperienze individuali, dalle quali si è ricostruito il dovere per l’imputato, nonchè la materiale possibilità, di conoscere l’illiceità penale dei comportamenti che aveva in animo di tenere, nonostante la relativa proibizione non fosse stata ancora trasfusa in un testo normativo o non fosse stata oggetto di precedenti interpretazioni giudiziali (Corte EDU, 01/09/2016, X e Y c. Francia; 6/10/2011, Soros c. Francia; 10/10/2006, Pessino c. Francia; 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera). In altre situazioni la Corte Europea ha fatto ricorso, non al patrimonio di conoscenze personali del soggetto giudicato, ma al dato formale del contenuto precettivo della legge, puntuale e determinato, e dell’interpretazione giudiziale già formatasi in precedenza (Corte EDU, 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; GC, 15/11/1996, Cantoni c. Francia; GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna). In altre ancora è stata oggetto di valutazione l’evoluzione della considerazione sociale del comportamento come antigiuridico, ritenendo prevedibile l’incriminazione persino se in contrasto con un testo normativo dal tenore liberatorio e pur in assenza di indicatori orientativi oggettivi (Corte EDU, 22/11/1995, S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito; 24/05/1988, Muller c. Svizzera).
La sentenza Contrada rivela, come già detto, l’impiego di una combinazione di criteri, quello soggettivo incentrato sulla condotta processuale del ricorrente e quello, che è preponderante, propriamente oggettivo, basato sull’assenza di una norma precisa e chiara e di una interpretazione giurisprudenziale univoca, situazione superata soltanto da un intervento giudiziale delle Sezioni Unite successivo ai fatti accertati. Nel panorama delle decisioni della Corte dei diritti fondamentali l’inedito rigore col quale è stata risolta la vicenda Contrada, che avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale, si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all’interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell’art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l’essenza del reato e sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata. La Corte EDU aveva in precedenza sostenuto: “per quanto chiaramente formulata sia una previsione, in ogni sistema legale, ivi incluso il diritto penale, esiste un inevitabile elemento di interpretazione giudiziale L’art. 7 della Convenzione non può essere inteso nel senso che pone fuori dal quadro convenzionale la graduale chiarificazione delle regole relative alla responsabilità penale attraverso l’interpretazione giudiziale, in relazione ai casi concreti, quante volte lo sviluppo conseguente sia coerente con l’essenza dell’incriminazione e possa essere ragionevolmente previsto” (S.W. c. Regno Unito, citata, p. 36). Analoghi concetti erano stati espressi nella nota sentenza della Grande Camera, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna (si vedano altresì Kokkinakis, sopra citata, p. 40, e Cantoni, sopra citata, p. 31), con la quale la medesima Corte aveva ravvisato la violazione dell’art. 7 CEDU a ragione di un improvviso mutamento giurisprudenziale nel diniego di benefici penitenziari, che, per la sua subitaneità ed il contrasto con le prassi applicative a lungo osservate in precedenza, non era “equivalso a un’interpretazione del diritto penale che seguiva una linea percettibile dello sviluppo giurisprudenziale” (p. 115). Indicazioni conformi sono leggibili nelle pronunce della Grande Camera, 22/03/2001, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania (p. 50 e 82) e 17/05/2010, Kononov c. Lituania (p. 185) e, proprio in riferimento a questioni insorte in riferimento all’ordinamento giuridico italiano, 17/9/2009, Scoppola c. Italia, mentre anche la recente pronuncia, resa il 17/10/2017 nel caso Navalnyye c. Russia, si è posta nel solco di quelle sopra citate.
Va poi aggiunto che è nota una pronuncia della medesima Corte, nella quale l’esistenza contestuale negli interpreti di visioni esegetiche difformi in ordine alla configurabilità di un reato, nella specie quello di genocidio nell’ambito dell’ordinamento tedesco, non disciplinato espressamente, ma tratto da norme internazionali pubbliche, non è stata ritenuta causa di violazione del principio di legalità, sebbene quella accolta nei confronti del ricorrente fosse stata l’interpretazione sfavorevole all’imputato, non restrittiva e mai applicata in precedenza (Corte EDU, 12/07/2007, Jorgic c. Germania).
Le superiori considerazioni convincono del carattere peculiare della decisione in esame, condivisibilmente definito atipico o anomalo da parte della dottrina e meritevole di più attenta rielaborazione, anche perchè basato su presupposti di fatto non correttamente percepiti: essa si inserisce in un contesto in cui, per la vocazione naturalmente casistica delle decisioni, risulta mutevole e di volta in volta diverso il criterio adottato per riconoscere la prevedibilità dell’esito giudiziario e di tale variabilità di valutazioni è consapevole anche la Sesta Sezione Penale nell’ordinanza di rimessione, che le richiama, pur senza trarne la dovuta conseguenza dell’impossibilità di estrarne un principio di diritto consolidato, oltre che chiaramente espresso in ordine alla tipologia di violazione ravvisata. Nè in senso contrario è sufficiente il solo dato dell’inserimento della sentenza Contrada nella guida all’interpretazione dell’art. 7 CEDU, predisposta dalla stessa Corte Europea, in riferimento al concetto di prevedibilità, posto che tale catalogazione attiene all’individuazione della norma convenzionale ritenuta violata, senza che se ne possa inferire la riconducibilità della decisione ad un indirizzo uniforme e coerente.
Ne discende che, ad avviso delle Sezioni Unite, la statuizione adottata nei confronti del ricorrente Contrada dalla Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori dello specifico caso risolto e non consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per avere commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della sentenza D. e che non abbiano adito la Corte Europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole.
- Plurimi profili di criticità, non considerati nell’ordinanza di rimessione e nemmeno nelle pur articolate prospettazioni difensive, inducono a ritenere che l’applicazione del concetto di prevedibilità, contenuto nella sentenza Contrada, non sia esportabile nei riguardi di altri soggetti già condannati irrevocabilmente per la stessa fattispecie e nello specifico dell’odierno ricorrente G., nemmeno ai fini di un’interpretazione convenzionalmente orientata del principio di legalità, che possa condurre al positivo apprezzamento della sua istanza di revisione della condanna.
6.1 In primo luogo, è singolare e non rispondente al reale contenuto delle decisioni adottate nel panorama giurisprudenziale interno sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa, intervenute prima del 1994, l’affermazione circa la “creazione giurisprudenziale” della fattispecie. L’errore che vi si annida, indotto dalla concorde deduzione delle parti, non riguarda tanto l’individuazione del formante della regola applicata, pronuncia giudiziale in luogo di atto legislativo, che di per sè non si concilia col principio, proprio dell’ordinamento nazionale, di riserva di legge di cui all’art. 25 Cost., comma 2, e crea insormontabili difficoltà di adattamento al sistema di legalità interno, in cui la giurisprudenza ha soltanto una funzione dichiarativa (Corte Cost., sent. n. 25 del 2019) e di cui la Corte Europea pare non essersi avveduta, quanto piuttosto la totale pretermissione della considerazione della base legislativa dalla quale muoveva l’interpretazione poi accolta dalle Sezioni Unite D.. La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa non è stato l’esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità ex abrupto in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall’applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis c.p., la prima norma generale sul concorso di persone, la seconda avente funzione più specificamente incriminatrice ed è l’approdo di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che si era svolto in parallelo anche sul tema sulla definizione della condotta punibile di partecipazione, rientrante nell’ipotesi di cui all’art. 416-bis c.p.. Come evidenziato in dottrina e da sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, Rv. 267861, tale esito è stato il portato di una riflessione teorica, che, dall’epoca postunitaria, si è sviluppata mediante plurimi riconoscimenti giudiziari dell’ammissibilità del concorso nel reato a plurisoggettività necessaria a fronte di condotte in vario modo agevolatrici, compiute in favore o del singolo associato, ovvero dell’attività dell’associazione di per sè considerata, non integranti il fatto tipico della partecipazione. Riconoscimento operato in riferimento, sia all’associazione a delinquere, sia a quella di tipo politico eversivo. Tale percorso era giunto già nel corso degli anni ottanta del secolo scorso a riferire i medesimi concetti anche alla fattispecie di associazione di stampo mafioso, introdotta nell’ordinamento dalla L. 13 settembre 1982, n. 646, in relazione a fenomeni di contiguità con la mafia, aventi come protagonisti soggetti non formalmente affiliati, ma di estrazione imprenditoriale, politico-amministrativa o appartenenti alle forze dell’ordine: in tal senso si erano espresse la sentenza sez. 1, n. 3492 del 13/06/1987, dep. 1988, Altivalle, Rv. 177889 ed altre coeve e successive, ma antecedenti alla pronuncia D.. Inoltre, la prima decisione del giudice di legittimità ad avere esaminato l’ipotesi del concorso esterno (Sez. 1, n. 8092 del 19/01/1987, Cillari, Rv. 176348), aveva rielaborato principi già affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nei precedenti decenni a partire da Sez. 1, n. 1569 del 27/11/1968, dep. 1969, Muther, Rv. 111439. I superiori rilievi convincono che i contrasti interpretativi, considerati dalla Corte EDU, non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso, ritenute integrare la fattispecie del concorso esterno, ma al contrario costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell’incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall’agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale.
6.2 E’ altresì sfuggito alla considerazione dei giudici Europei che, sia la citata sentenza Cillari, sia quelle successive pur richiamate nella sentenza Contrada, ovvero Sez. 1, n. 8864 del 21/03/1989, Agostani, Rv. 181648; Sez. 1, n. 2342 del 18/05/1994, Abbate, Rv. 198327 e Sez. 1, n. 2348 del 18/05/1994, Clementi, Rv. 198329, avevano risolto negativamente il tema dell’autonomia concettuale del concorso eventuale nel delitto associativo mafioso, ma non perchè le condotte di agevolazione o comunque di ausilio alla vita ed all’operato dell’organizzazione, compiute dell’estraneo, fossero ritenute integrare comportamenti leciti e quindi da mandare esenti da responsabilità, ma perchè ricomprese nella nozione di partecipazione, penalmente rilevante e punibile e ravvisata in tutti i casi in cui il soggetto prestasse un contributo all’organizzazione. Può quindi condividersi quanto osservato nelle due sentenze Dell’Utri (Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016 e Sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019) e da parte della dottrina, ossia che il contrasto composto dalle Sezioni Unite di questa Corte nel 1994 in ordine alla condotta che, al di fuori dello stabile inserimento nei ranghi dell’organizzazione criminosa, ne realizzasse il rafforzamento ed il mantenimento in vita, non presupponeva l’alternativa decisoria tra l’incriminazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p. secondo la tesi che l’ammetteva e l’assoluzione da ogni forma di responsabilità penale per quella che la negava, poichè quest’ultima impostazione faceva rientrare il concorso nel fatto tipico di partecipazione e comportava la punizione del reo. In base agli arresti giurisprudenziali e dottrinali dell’epoca di commissione dei fatti ascritti al ricorrente G. le conseguenze giuridiche del comportamento, causalmente rilevante e volto al consolidamento ed al mantenimento in essere della organizzazione mafiosa, ipotizzabili anche con l’assistenza di consulenti giuristi da parte dell’agente nel periodo antecedente la sentenza D., comportavano la sua incriminazione quale delitto, potendo variare soltanto la definizione giuridica tra le due opzioni della partecipazione concorsuale piena da un lato e del concorso eventuale o del favoreggiamento personale, continuato ed aggravato ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 dall’altro. Contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, non potevano residuare dubbi o insuperabili incertezze sul carattere illecito della condotta e sulla sua rilevanza penale, sicchè l’unico esito non prevedibile in quel contesto interpretativo della fattispecie era l’assoluzione, senza riflessi pregiudizievoli nemmeno sotto il profilo sanzionatorio, stante l’invariata punizione della partecipazione del concorrente necessario e dell’apporto del concorrente eventuale. Il che è tanto più vero nel caso del G., al quale, a differenza che per la posizione del Contrada, nel processo di cognizione erano state ascritte plurime condotte, poste in essere in un arco temporale protrattosi sino al febbraio 1994, ossia sino a pochi mesi prima dell’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza D., quando il dibattito tra gli interpreti aveva già ben delineato la fattispecie di concorso esterno poi ravvisata a suo carico.
6.3 Nella sentenza della Corte EDU non si rinviene nemmeno una posizione coerente con i suoi precedenti pronunciamenti quanto all’incidenza del contrasto interpretativo, attinente al solo profilo della qualificazione giuridica del fatto illecito, sulla reale capacità di previsione dell’esito giudiziario da parte del cittadino. Si è osservato da parte della dottrina, e si condivide il rilievo, che le divergenti definizioni giuridiche date al contributo dell’extraneus ed il numero limitato di opzioni alternative, individuate in giurisprudenza, rendevano conoscibile in via anticipata al momento del compimento della condotta la possibile adozione di una delle soluzioni in discussione, conducenti in ogni caso all’incriminazione ed alla punizione, senza che la stessa potesse manifestarsi quale effetto a sorpresa, quale risposta giudiziaria postuma, improvvisa ed inedita, tale da sorprendere l’affidamento del soggetto agente come formatosi al momento del compimento dei fatti, in cui erano già presenti segnali discernibili, anticipatori del realizzarsi dell’incriminazione e della punizione. In altri termini, come sottolineato dal Procuratore Generale, la tesi accolta dalla sentenza D. nel 1994 si presenta, non come un mutamento normativo, ma quale mera evoluzione nell’interpretazione della disposizione di legge vigente, coerente con l’essenza della fattispecie tipizzata dagli artt. 110 e 416-bis c.p., possibile e conoscibile in anticipo, oltre che consentita dalla Convenzione nel significato attribuitole dalla Corte EDU, che ha sanzionato sino ad ora soltanto gli interventi decisori dei giudici nazionali dissonanti rispetto ai precedenti costanti orientamenti, sia per il loro contenuto radicalmente innovativo, sia per gli effetti peggiorativi per l’imputato, frutto di un’applicazione in via retroattiva, non consentita dall’art. 7 della Convenzione (Corte EDU, GC, Del Rio Prada, p. 116; 24/05/2007, Dragotoniu e Militaru-Pidhorni c. Romania, p. 44; GC, 20/10/2005, Vasiliauskas c. Lituania, p. 181; 05/05/1993, Kokkinakis c. Grecia, p. 52). Per quanto già esposto, nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa la sentenza D. non ha operato in via esegetica una ricostruzione in malam partem della fattispecie di reato in riferimento a comportamenti tenuti in un periodo temporale in cui gli stessi erano considerati leciti ed esenti da pena, ma ha recepito una delle possibili soluzioni, già nota ed ampiamente illustrata nel suo fondamento giuridico, quindi conoscibile e tale da avvertire il cittadino del rischio di punizione in sede penale.
Convincenti conferme della correttezza della lettura qui proposta, non isolata nel panorama dei precedenti di legittimità, sono ricavabili dalla giurisprudenza già occupatasi di casi, in cui si era dedotto l’intervento di un c.d. overruling giurisprudenziale, ossia di un mutamento ermeneutico, ascrivibile alla Corte di cassazione e foriero di un’applicazione retroattiva sfavorevole della disposizione di legge, sia processuale, che sostanziale, denunciata dalle difese come trasgressiva dell’art. 2 c.p., art. 25 Cost. e art. 7 CEDU. Singole sezioni penali di questa Corte, chiamate a pronunciarsi in relazione a decisioni giudiziali, assunte dalle Sezioni Unite in un momento successivo alla violazione dei precetti che aveva dato luogo al processo, quindi giocoforza retroattive, in tema di imprescrittibilità della pena dell’ergastolo (Sez. U. n. 19756 del 24/09/2015, Trubia, Rv. 266329), di corretta interpretazione del delitto di cui all’art. 615-ter c.p. (Sez. U. n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061) e di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi (Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822), hanno rilevato che l’overruling non consentito, perchè non prevedibile per l’imputato, è ravvisabile nei soli casi di radicale innovazione della soluzione giurisprudenziale, inconciliabile con le precedenti decisioni, mentre va esclusa qualora la soluzione offerta si collochi nel solco di interventi già noti e risalenti, di cui costituisca uno sviluppo prefigurabile pur nel contrasto di opinioni, che di per sè rende l’esito conseguito comunque presente e possibile, anche se non accolto dall’indirizzo maggioritario (Sez. 5, n. 13178 del 12/12/2018, dep. 2019, Galvanetti, Rv. 275623; Sez. 5, n. 41846 del 17/05/2018, Postiglione, Rv. 275105; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876; Sez. 5, n. 47510 del 09/07/2018, Dilaghi, Rv. 274406; Sez. 5, n. 31648 del 17/06/2016, Falzone).
Altrettanto conformi i precedenti della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, le quali, seppur in riferimento al limitato campo applicativo del diritto processuale e non sostanziale, e con la precisazione della sua valenza circoscritta agli interventi interpretativi in malam partem, hanno di recente ribadito che: “Il prospective overruling è finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) di mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo sterilizzandoli, così consentendosi all’atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell’orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento dell’atto, di produrre ugualmente i suoi effetti” (Sez. U. civ. n. 4135 del 12/02/2019, Rv. 652852; Sez. U. civ., n. 28575 del 08/11/2018, Rv. 651358; Sez. U. civ., n. 15144 del 11/07/2011, Rv. 617905). Al contrario, si è negato tutela alla parte incorsa in sanzioni processuali nei casi di innovazioni esegetiche, postesi quale sviluppo non irragionevole di un pregresso indirizzo già affermato.
6.4 In aggiunta ai superiori rilievi s’impone l’ulteriore considerazione delle difficoltà di individuare il momento in cui, a fronte di divergenti interpretazioni del dato normativo, affermatesi contestualmente, il grado di consolidamento del quadro ermeneutico in sede giudiziaria sia sufficiente per garantire la prefigurazione per il soggetto agente della punizione penale: nell’ambito dell’ordinamento interno, contrassegnato dal valore non vincolante del precedente, dall’efficacia soltanto persuasiva, per la profondità ed accuratezza dei suoi argomenti, dell’interpretazione giurisprudenziale, il cui avvento non soggiace di per sè al divieto di retroattività e non è assimilabile ad una nuova disposizione di legge, un eccessivo irrigidimento del criterio della prevedibilità dell’esito processuale in senso oggettivo finirebbe per precludere alla Corte di cassazione, cui questa attività compete istituzionalmente, di individuare una nuova soluzione esegetica sfavorevole all’imputato, ma rispettosa dell’essenza del reato tipizzato dalla legge, quindi perfettamente ragionevole e coerente con il testo normativo, ciò solo per il suo carattere innovativo, per l’assenza di casi precedenti già risolti, o perchè preceduta da contrasti sulla corretta lettura del testo stesso. Tanto comporterebbe una limitazione dei poteri decisori del giudice di legittimità ed il vincolo del rispetto del precedente in chiara collisione col disposto dell’art. 101 Cost., comma 2, finendo per assegnare al principio di legalità un contenuto contrastante con il precetto costituzionale, che, come tale, non può essere recepito (Sez. 5, n. 42996 del 14/09/2016, Ciancio Sanfilippo, Rv. 268203).
L’eventualità di un sindacato postumo sulla formazione del giudicato di condanna per verificare il rispetto dei diritti di garanzia dell’individuo, considerati nell’ottica del principio di legalità convenzionale, come inteso nella sentenza Contrada, costituisce altresì un freno al dibattito giuridico ed all’evoluzione del diritto vivente nella sua accezione fornita dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., n. 276/1974), che postula la funzione di “mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente “creativa” della interpretazione, la quale, senza varcare la “linea di rottura” col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima” (Sez. U. n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651).
6.5 A convincere che nel sistema giuridico italiano non è possibile riscontrare una carenza strutturale, universalmente rintracciabile in tutti i giudicati di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti il 1994 e verificatasi anche nella situazione del G., è anche la considerazione che all’epoca l’unico profilo di incertezza in presenza di definizioni giuridiche del fatto di reato non uniformi, ma nessuna comportante l’esenzione da responsabilità e nemmeno variazioni di pena, era confinato a quale di esse avrebbe potuto essere recepita in sede giudiziaria, dubbio che però non eliminava la colpevolezza, perchè evitabile attraverso consulenze giuridiche e la considerazione dell’evoluzione della riflessione giurisprudenziale sul tema e tale da imporre di astenersi dai comportamenti poi incriminati.
Il concetto di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta non è estraneo all’ordinamento nazionale, ma è veicolato attraverso la nozione di errore di diritto incolpevole, come elaborata dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988, poi ripresa nella sentenza n. 185 del 1992, che ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 5 c.p. “nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile”. La decisione si basa sulla considerazione che il principio di legalità dei reati e delle pene, inteso quale riserva di legge statale di cui all’art. 25 Cost., comma 2, costituisce presidio a tutela della persona e della libertà individuale, che viene posta al riparo da interventi creativi delle fattispecie di illecito, compiuti dal giudice contro o al di là del dato testuale della norma e dall’imputazione di responsabilità per la violazione di precetti non conoscibili o inevitabilmente ignorati; esso pretende la determinatezza della norma penale ed impone al legislatore l’obbligo di formulare testi di legge precisi sotto il profilo semantico della chiarezza e della intelligibilità delle espressioni, in modo che il soggetto vi possa “trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento”. Se difettino tali requisiti, la indeterminatezza della fattispecie pregiudica la sua conoscibilità e la prevedibilità delle conseguenze penali delle azioni, sicchè vengono meno la relazione tra soggetto e legge penale, la personalità dell’illecito, la possibilità di muovere un rimprovero per l’infrazione commessa ed il fondamento legale della punizione per la mancanza del requisito della colpevolezza, costituzionalmente preteso dall’art. 27, comma 1, che “compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d’imputazione”.
Rileva poi che, secondo il giudice delle leggi, per identificare l’errore inevitabile sul divieto normativo, occorre fare riferimento a criteri oggettivi, “puri”, o “misti”, ossia basati su obiettiva oscurità del testo di legge, su irrisolti e gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, su “assicurazioni erronee” delle competenti autorità pubbliche, ma anche sulle condizioni e conoscenze personali del singolo soggetto agente; dalla combinazione di tali parametri discende che l’ignoranza può essere inescusabile anche in presenza di un generalizzato errore sul divieto quando l’agente si rappresenti comunque la possibilità che il fatto sia antigiuridico, mentre è inevitabile se il dubbio sia oggettivamente irrisolvibile, oppure se l’assenza di dubbio dipenda da carente socializzazione della persona.
Concetti non dissimili sono stati espressi più di recente dalla Grande Camera della Corte EDU nella citata sentenza G.I.E.M. c. Italia, per la quale, come già affermato nel precedente arresto 20/01/2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia, l’art. 7 della Convenzione, pur senza menzionare testualmente “il legame morale esistente tra l’elemento oggettivo del reato e la persona che ne è considerata l’autore” (p. 241), lo presuppone. Infatti, la logica della punizione e la nozione di colpevolezza autorizzano a ritenere che l’art. 7 pretenda, per poter infliggere la pena, “un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato”, così riconoscendo la “correlazione tra il grado di prevedibilità di una norma penale e il grado di responsabilità personale dell’autore del reato” (p. 242).
Può dunque concludersi che la Corte Europea ha ricondotto al principio di legalità convenzionale quella nozione di prevedibilità che la giurisprudenza costituzionale italiana aveva già riconosciuto, pur se correlata al principio di colpevolezza, in termini altrettanto funzionali per la garanzia del cittadino, ma che non possono assumere rilievo per la soluzione del caso rimesso alle Sezioni Unite: l’apprezzamento di un errore incolpevole dell’imputato, indotto dalla pretesa oscurità o incertezza del dato normativo e della sua interpretazione, dovrebbe tradursi nella rivisitazione del giudizio ricostruttivo del fatto di reato e dell’atteggiamento soggettivo dell’autore, operazione preclusa dalla già avvenuta formazione del giudicato, quindi non conducibile nella fase esecutiva, tranne che non ricorrano i presupposti di attivazione della revisione speciale di cui all’art. 630 c.p.p., che nella presente vicenda non ricorrono per quanto già esposto.
A tale ostacolo, evidenziato anche nell’ordinanza di rimessione, si aggiunge l’ulteriore difficoltà di intendere l’errore incolpevole di diritto in base ai costanti insegnamenti della giurisprudenza di questa Corte. Invero, nelle applicazioni della nozione di prevedibilità, successive alla pronuncia della Corte costituzionale, è stata esclusa la colpevolezza quando l’errore di diritto sia dipeso da ignoranza inevitabile della legge penale, giustificata da una pacifica posizione giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria condotta; per contro, a fronte di difformi orientamenti interpretativi accolti nelle pronunce giudiziali, si è esclusa la possibilità di invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, poichè lo stato di incertezza impone al soggetto di astenersi dall’agire e di condurre qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia anche attraverso la mediazione applicativa operatane dalla giurisprudenza (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252197; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011, Sirignano, Rv. 249451; Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, Giordano, Rv. 229060; Sez. 3, n. 4951 del 17/12/1999, dep. 2000, Del Cuore, Rv. 216561).
Deve conclusivamente escludersi che dal giudicato della Corte Europea nel caso Contrada sia possibile rintracciarvi contenuti che consentano di estrarvi, per espressa indicazione, oppure in base al complessivo percorso ermeneutico seguito, la individuazione di una fonte generale di violazione dei diritti individuali, garantiti dalla Convenzione.
7.Con riferimento alla questione principale oggetto del ricorso deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: “I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza Europea consolidata”.
- Alla stregua dell’iter argomentativo sin qui sviluppato e dei principi enunciati, il ricorso proposto è infondato, non essendo consentito al ricorrente di invocare in via estensiva i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU nel caso Contrada. Tale è la conclusione imposta dall’esclusa possibilità di individuare i requisiti formali e contenutistici per assegnare a tale pronuncia una portata generale, riferibile a tutti i soggetti condannati perchè ritenuti responsabili della fattispecie di concorso esterno in associazione di stampo mafioso per comportamenti tenuti in epoca antecedente alla sentenza delle Sezioni Unite D. del 1994, quindi anche alla posizione del ricorrente G.S., nonchè dalla natura non vincolante dell’interpretazione fornita del principio di legalità nei suoi aspetti qualitativi di accessibilità e prevedibilità dell’incriminazione e della condanna. Il che è tanto più valido nel caso del G., al quale nel processo già definito erano stati ascritti comportamenti compiuti sino al febbraio 1994, quindi di molti anni successivi alle condotte addebitate al Contrada e comunque protrattesi sino a pochi mesi prima dell’intervento delle Sezioni Unite quando il relativo dibattito sul piano della definizione giuridica del fatto, in origine contestatogli quale partecipazione al sodalizio mafioso, era già presente ed era stato già affrontato anche dalla giurisprudenza di legittimità.
Nè può trovare accoglimento, per il palese difetto di rilevanza per la soluzione del caso, la richiesta di sollevare incidente di costituzionalità in riferimento all’art. 630 o all’art. 673 c.p.p., dal momento che il giudicato di condanna, pronunciato nei riguardi del ricorrente, non rivela profili di illegittimità convenzionale per contrasto con l’art. 7 CEDU. Le superiori considerazioni dovrebbero più correttamente condurre ad una pronuncia d’inammissibilità del ricorso per la insussistenza dei presupposti legittimanti la forma di tutela attivata, ma la rilevanza delle questioni giuridiche sollevate induce al suo rigetto; ne segue di diritto la condanna del proponente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020