Reati contratto e reati in contratto: la posizione della Cassazione

L’individuazione del trattamento civilistico dell’atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto (o negozio).

Tradizionalmente quando il negozio si è concluso commettendo un reato, si usa distinguere l’ipotesi dei reati commessi nell’attività di conclusione di un contratto, cioè dei c.d. “reati in contratto”, e l’ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sè vietato, cioè dei c.d. “reati contratto”.

In sintesi la distinzione è la seguente:

-nel caso in cui la norma incriminatrice penale vieti proprio la stipulazione del contratto, in ragione dell’assetto degli interessi che esso mira a realizzare, si è al cospetto del c.d. “reato-contratto” (es. la vendita di sostanze stupefacenti; la ricettazione ex art. 648 c.p.; il commercio di prodotti con segni falsi ex art. 474 c.p.);

-allorchè, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta posta in essere da uno dei contraenti in danno dell’altro nella fase della stipulazione, rileva la categoria concettuale del c.d. “reato in contratto” (si tratta, per lo più, delle fattispecie di reato caratterizzate dalla cooperazione artificiosa della vittima come la violenza privata ex art. 610 c.p., l’estorsione ex art. 629 c.p., la circonvenzione di persona incapace ex art. 643 c.p., l’usura ex art. 644 c.p.).

 

In merito ai c.d. reati in contratto la giurisprudenza di legittimità ha elaborato due distinti criteri per giudicare dell’invalidità del negozio concluso commettendo il reato:

-uno, di natura sostanziale, che tende a privilegiare la verifica della natura della norma penale violata, per valutare se si tratti di norma imperativa di ordine pubblico o comunque di rilevanza pubblica, perchè posta a tutela di un interesse generale, sicchè solo in tale eventualità il contratto che la viola si ritiene affetto da nullità perchè in contrasto con l’art. 1418 c.c., comma 1;

-un altro, di natura formale, che tende a privilegiare la verifica del vizio introdotto nel contratto a seguito della consumazione del reato, e dei possibili rimedi di tipo civilistico, secondo la rilevanza che la condotta vietata assume in questo ambito, sicchè se la condotta del contraente – pur penalisticamente rilevante – comporti soltanto un vizio del consenso della controparte, il contratto si ritiene affetto da annullabilità, non da nullità.

 

Il primo dei due criteri interpretativi è più coerente col disposto dell’art. 1418 c.c., comma 1 alla stregua di quella che è l’interpretazione più accreditata del sintagma contrarietà a “norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente” ivi contenuto.

 

Il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c., con la conseguente sanzione di nullità radicale, si estende a qualsiasi negozio, ancorchè di per sè astrattamente lecito, allorchè esso venga impiegato per conseguire il fine concreto, riprovato dall’ordinamento, della illecita coercizione del debitore, costringendolo al trasferimento di un bene a scopo di garanzia nella ipotesi di mancato adempimento di una obbligazione assunta.

 

Cassazione civile, sezione seconda, sentenza del 27.08.2020, n. 17959

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