Svolgimento della dott.ssa Tereza Pertot
TRACCIA DI DIRITTO PENALE
Tizio è proprietario del negozio di abbigliamento Alfa.
Tizio svolge la sua attività in totale onestà.
Nella città di Casterinopoli, dove lavora Tizio, veniva emesso un ordine di cattura per diversi boss mafiosi, tra cui Caio, che viene qualificato come “capo mafia”.
Caio avvicinava Tizio, vecchio compagno della scuola elementare Vito Grassi di Casterinopoli, chiedendogli ospitalità.
Tizio offriva a Caio un rifugio, situato nella cantina di un immobile in Via Tripoli, della stessa città di Casterinopoli.
Per oltre due mesi, giornalmente, Tizio ospitava Caio nella suddetta cantina, portandogli viveri e vestiario.
Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione.
SVOLGIMENTO
Nella città di Casterinopoli veniva emesso un ordine di cattura per diversi boss mafiosi, tra cui Caio, il quale veniva qualificato quale “capo mafia”.
Per evitare la cattura, Caio chiedeva ospitalità al suo vecchio compagno di scuola Tizio, onesto commerciante della città di Casterinopoli.
Tizio decideva di aiutare l’amico d’infanzia, offrendogli rifugio nella cantina di un immobile, dove Caio rimaneva per un periodo di oltre due mesi. Durante tale periodo Tizio portava al ricercato viveri e vestiario.
Tizio vuole oggi conoscere le conseguenze penali della propria condotta.
Per potergli fornire una risposta, occorre anzitutto chiedersi se la sua condotta integri i presupposti del reato di assistenza agli associati ex art. 418 c.p.
Ai sensi della citata disposizione è punito chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dia rifugio o fornisca vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano ad una associazione per delinquere, anche di tipo mafioso.
Trattasi di reato comune (che può essere, dunque, commesso da chiunque), di condotta (essendo sufficiente, perché possa dirsi integrato, che il soggetto attivo ponga in essere una o più delle attività descritte dall’art. 418 c.p.), posto a tutela dell’ordine pubblico.
L’elemento soggettivo di tale fattispecie delittuosa è il dolo generico, e quindi la coscienza e volontà di aiutare, attraverso una delle condotte descritte, un partecipante ad un’associazione per delinquere.
Il comma 2° della menzionata disposizione prevede, poi, un aumento di pena per i casi in cui l’assistenza sia prestata continuatamente.
È prevista, infine, una causa di non punibilità per chi commetta il fatto in favore di un prossimo congiunto.
Ora, per quanto riguarda il caso di specie, Tizio ha senz’altro posto in essere la condotta descritta dall’art. 418 c.p.: egli ha infatti prestato assistenza a Caio, qualificato nell’ordine di cattura come membro di un’associazione mafiosa, dando rifugio allo stesso e fornendogli vitto ed ospitalità.
Non sembrano sussistere dubbi neppure in ordine alla coscienza e volontà di Tizio di prestare attività di assistenza a favore di Caio; sicché, dal punto di vista soggettivo, può dirsi sussistente l’elemento del dolo generico.
Avendo peraltro Tizio prestato attività di assistenza per un periodo di oltre due mesi, parrebbe poter trovare applicazione altresì l’aggravante di cui al comma 2°.
Non essendo, poi, Caio un suo prossimo congiunto, ma un mero amico d’infanzia di Tizio, non potrebbe peraltro trovare applicazione la causa di esclusione di punibilità di cui al comma 3°.
Prima di concludere nel senso della possibilità che Tizio venga condannato a rispondere ex art. 418 c.p. occorre, invero, valutare se la sua condotta non integri eventualmente gli estremi del reato di favoreggiamento di cui all’art. 378 c.p. o, addirittura, di concorso esterno nel reato commesso da Caio ex at. 110 c.p.: come emerge dalla formulazione dello stesso art. 418 c.p., la figura criminosa dell’assistenza agli associati è delimitata infatti da una riserva, nel senso che essa non potrà dirsi sussistente ove l’assistenza posta in essere dal soggetto sia tale da costituire concorso nell’associazione per delinquere o sia tale da integrare un’ipotesi di favoreggiamento personale.
Orbene, per quanto riguarda il reato di favoreggiamento personale, esso è disciplinato – come precisato – dall’art. 378 c.p. Tale disposizione punisce, precisamente, chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuti taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti.
Il comma 2° prevede poi un aumento di pena per i casi in cui il favoreggiamento riguardi il delitto previsto dall’art. 416 bis c.p., disposizione che disciplina il reato di partecipazione di un’associazione di tipo mafioso.
Inserito fra i delitti contro l’amministrazione della giustizia, il reato di favoreggiamento è un reato comune (che può essere, dunque, commesso da chiunque), di pericolo (essendo sufficiente, ai fini della sua configurabilità, che la condotta dell’agente abbia l’attitudine, sia pure astratta, ad intralciare la giustizia, mentre non è richiesto che alla condotta consegua altresì l’obiettivo voluto dall’agente), di condotta (non essendo richiesta, in aggiunta all’attività idonea ad intralciare le investigazioni dell’autorità, la verificazione di un evento ulteriore), istantaneo (che si consuma, cioè, nel momento stesso in cui viene realizzata la condotta di ausilio).
Ciò posto, è appena il caso di precisare che si tratta di un reato che può essere commesso anche prima di un procedimento penale, essendo sufficiente la possibilità di investigazioni e ricerche. Ciò che si richiede è unicamente che il reato ascritto al soggetto favorito sia stato consumato.
Se, peraltro, il favoreggiamento riguarda un soggetto resosi responsabile di un reato associativo, la figura criminosa di cui all’art. 378 c.p. è configurabile anche se l’associazione sia ancora operante, purché siano in corso le investigazioni o ricerche da parte dell’autorità giudiziaria.
Sotto il profilo soggettivo, l’elemento psicologico del reato di favoreggiamento è il dolo generico, e quindi la volontà e la consapevolezza di prestare aiuto a taluno dopo che ha commesso un delitto punito con la reclusione o l’ergastolo.
Non sono, invero, rilevanti i motivi che spingono l’autore a fornire la propria attività, salvo – naturalmente – che ricorra una causa di non punibilità (quale, ad esempio, quella di cui all’art. 384 c.p., che esclude la punibilità di chi abbia commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore).
Come ha precisato la giurisprudenza, si applica ancora la circostanza aggravante speciale dell’aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, se la condotta di favoreggiamento abbia come beneficiario un soggetto che riveste un ruolo apicale all’interno della struttura associativa, dal momento che la condotta finisce in tal caso col favorire l’intera associazione (così Cass. n. 26589/11).
Tanto premesso, occorre a questo punto capire quale sia il discrimine fra il reato di favoreggiamento e quello dell’assistenza agli associati. E ciò al fine di stabilire quale dei due reati sia configurabile nel caso di specie.
Orbene, a tale riguardo occorre precisare che il delitto di assistenza agli associati presuppone la coincidenza temporale dell’attività di assistenza con l’operatività dell’associazione criminale.
Diversamente, l’aiuto prestato agli associati dopo la cessazione del sodalizio criminoso, sotto forma di rifugio o fornitura di vitto, può integrare eventualmente il reato di favoreggiamento personale ex art. 378 c.p.
Sennonché, quest’ultimo delitto può ben configurarsi anche durante la permanenza del reato associativo.
Se è vero, dunque, che l’attività di ausilio posta in essere dopo la cessazione del sodalizio integra normalmente il reato di cui all’art. 378 c.p., è altresì vero che, ove tale attività sussista durante la permanenza del reato associativo, sarà necessario, per stabilire se essa sia qualificabile in termini di reato di favoreggiamento o di assistenza di associati, guardare a quelle che sono le finalità e gli effetti della condotta dell’agente.
Più precisamente, integra il reato di cui all’art. 418 c.p., e non quello di favoreggiamento, la condotta di chi fornisce rifugio o vitto agli associati qualora, essendo tuttora operante l’associazione per delinquere, non siano in corso investigazioni o ricerche da parte dell’autorità giudiziaria per non esserne stata ancora accertata la sua esistenza.
Di contro, ove tali investigazioni o ricerche siano in corso, la condotta di ausilio sarà invece qualificabile in termini di reato di favoreggiamento ex art. 378 c.p.
Orbene, nel caso di specie sembrano sussistere tutti i presupposti perché possa dirsi integrato il reato di cui all’art. 378 c.p. E perché possa essere, invece, esclusa l’esistenza di quello ex art. 418 c.p.
Innanzitutto, Tizio ha posto in essere un’attività volta a favoreggiare Caio, che si presenta idonea ad intralciare le investigazioni dell’autorità giudiziaria.
Dal punto di vista soggettivo, sussiste altresì la coscienza e la volontà di Tizio di intralciare le investigazioni dell’autorità. È chiaro, infatti, che dopo l’emissione dell’ordine di cattura contro un determinato soggetto, prestare rifugio a tale soggetto è senz’altro attività idonea ad impedire il corretto svolgimento dell’amministrazione della giustizia.
È ben vero, poi, che l’associazione mafiosa non è ancora cessata. Tuttavia, nel caso di specie sono già in corso le investigazioni e le ricerche dell’autorità, poiché – come si è visto – l’ordine di cattura contro Caio è già stato emesso.
Parrebbe poi doversi ritenere che sia applicabile, nella fattispecie in esame, l’aggravante speciale dell’aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso: la condotta di favoreggiamento è stata, infatti, posta in essere da Tizio a favore di un soggetto definito come “capo mafia”, e quindi a favore di un soggetto che riveste una posizione apicale all’interno dell’associazione.
Una volta riscontrati tutti i presupposti del reato ex art. 378 c.p. ed esclusa, di conseguenza, in virtù della riserva ex art. 418 c.p., la sussistenza del reato ivi previsto, occorre invero, prima di concludere nel senso dell’applicabilità dell’art. 378 c.p., verificare se non sia forse configurabile, nel caso concreto, il concorso nel reato ex art. 416 bis c.p.
Come si è visto, anche l’applicabilità dell’art. 378 c.p. è, al pari di quella dell’art. 418 c.p., limitata da una riserva. Più in particolare, il reato di favoreggiamento deve ritenersi escluso ogniqualvolta ricorrano i presupposti del concorso esterno nel reato commesso dal soggetto favorito od agevolato.
Occorre, quindi, capire se Tizio possa essere chiamato a rispondere per concorso nel reato commesso da Caio e se possa, di conseguenza, applicarsi allo stesso la pena stabilita per tale delitto ex art. 110 c.p.
Ora, nel caso di specie, Caio – definito nell’ordine di cattura come “capo mafia” – soggiacerà molto probabilmente alla pena di cui all’art. 416 bis, comma 2°, c.p.
La disposizione citata punisce, con una pena più grave rispetto a quella che si applica ai meri partecipanti di un’associazione mafiosa, coloro che tale associazione promuovono, dirigono, organizzano.
Ciò posto, ci si deve chiedere se sia possibile che anche Tizio venga condannato alla medesima pena di Caio.
A tal fine, occorre stabilire, quindi, se la sua attività possa o no integrare gli estremi del c.d. concorso esterno nel reato di associazione mafiosa.
Orbene, come precisato in giurisprudenza, in tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di concorrente esterno colui che, pur non inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, di natura materiale o morale, sempreché questo abbia una effettiva rilevanza causale nella conservazione del vincolo o nel rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, rivelandosi in tal senso condizione necessaria per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo (Cass. n. 29458/09).
In altri termini, ciò che è necessario per aversi concorso esterno nel reato ex art. 416 bis c.p. è che l’agente partecipi con animus socii all’attività concorsuale del reato, senza cioè limitarsi ad aiutare in via del tutto occasionale uno dei membri.
Non si avrà pertanto concorso esterno, ove l’agente presti il proprio aiuto in via del tutto eccezionale ad uno dei partecipanti; aiutandolo, peraltro, non già in quanto membro dell’associazione criminosa, ma in quanto legato allo stesso da un rapporto di amicizia o comunque di affetto (cfr. Cass. n. 34594/08; n. 40966/08).
Ora, per quanto riguarda il caso sottoposto all’attenzione dello scrivente, va notato che Tizio ha sì fornito un aiuto a Caio, offrendogli vitto e alloggio, a seguito dell’emissione dell’ordine di cattura nei suoi confronti.
Non si può poi dubitare che l’aiuto di Tizio sia stato prestato con coscienza e volontà.
Tuttavia, non sembra potersi ritenere che la condotta di Tizio fosse tale da apparire idonea a rafforzare le capacità operative dell’associazione. Egli si è, del resto, limitato a fornire un rifugio e a portare viveri ad un vecchio amico d’infanzia.
Tizio ha aiutato sì Caio, ma la sua intenzione non era quella di partecipare all’attività concorsuale col c.d. animus socii. Di contro, egli ha voluto semplicemente dare una mano ad un amico di vecchia data, a prescindere dall’appartenenza di questo all’associazione mafiosa.
È ben vero che Caio era un boss mafioso e che – come affermato in giurisprudenza – la condotta di chi curi sotto il profilo logistico la latitanza del capo del sodalizio, risponde, non già dei meno gravi reati di favoreggiamento personale o di assistenza agli associati, ma di quello di partecipazione ad un’associazione mafiosa.
Tuttavia, è anche vero che per aversi quest’ultimo reato è necessario che l’agente non si limiti a fornire viveri e rifugio al capo, ma gli assicuri altresì al contempo, in maniera stabile la possibilità, per il suo tramite, di mantenere i contatti con gli altri associati e di continuare a dirigere l’organizzazione: solo ove la condotta presenti tali connotati potrà infatti ritenersi palese la volontà del soggetto di agevolare non già il singolo soggetto latitante, ma l’intera associazione (Cass. n. 25339/10).
È proprio questa la linea di discrimine fra il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa e quello di favoreggiamento. Mentre, infatti, perché possa dirsi integrato il primo, è necessario che il soggetto interagisca organicamente e sistematicamente con gli associati, quale elemento della struttura organizzativa del sodalizio criminoso, anche al fine di depistare le indagini di polizia volte a reprimere l’attività dell’associazione o a perseguire i partecipi, si avrà favoreggiamento, invece, ove l’agente aiuti in maniera episodica uno dei membri del sodalizio ad eludere le ricerche della polizia o a sottrarsi alle ricerche di questa (Cass. n. 40966/08).
Tanto premesso, si deve quindi ritenere, con riguardo alla fattispecie in esame, che la condotta di Tizio non pare in definitiva integrare gli estremi del reato di partecipazione in associazione mafiosa.
Egli si è limitato, infatti, seppur per un periodo di due mesi, ad aiutare un associato, che era stato peraltro suo amico d’infanzia e a cui era pertanto legato affettivamente, a sottrarsi alle ricerche della polizia.
Non si ritiene, di contro, che la volontà di Tizio fosse quella di rafforzare l’associazione mafiosa.
Egli non ha, del resto, aiutato Caio a mantenere contatti con gli altri associati e a dirigere l’organizzazione, ma si è limitato ad offrirgli rifugio e viveri.
Non sembrano sussistere dubbi, come si è visto, in ordine alla possibilità di qualificare la sua condotta in termini di favoreggiamento personale ex art. 378 c.p.
Tuttavia, non pare potersi concludere per la configurabilità, nel caso di specie, del più grave reato della partecipazione all’associazione mafiosa.
In definitiva, Tizio sarà quindi probabilmente chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 378 c.p.
Potrà peraltro trovare applicazione l’aggravante prevista dal 2° comma di tale disposizione per aver Tizio favoreggiato un soggetto facente parte di un’associazione mafiosa.
Ai fini della determinazione della pena si dovrà comunque tenere conto delle circostanze attenuanti.
Innanzitutto, si potrà chiedere la concessione delle attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., facendo leva sull’assenza di precedenti condanne.
Inoltre, sotto il profilo e ai fini dell’art. 133 c.p., il giudice dovrà altresì tenere conto dei motivi che hanno spinto Tizio a prestare aiuto a Caio, il suo carattere così come la sua condotta di vita di onesto commerciante prima della commissione del reato.